L'ITALIANO MEDIO

Renzi alla Fca di Melfi con Marchionne:  "Il lavoro non si crea nei talk show"


L'ho trovato! Eccolo l'italiano medio nella foto che abbraccia Renzi e sorride al suo padrone. Con altri italiani medi (*) festeggiano la loro coglionaggine. Visti i soggetti residenti in questo paese, sinceramente parlando, io mi sarei stupito se uno come Renzi non facesse il premier.

L'italiano medio io lo definirei esattamente così, né più e né meno: a cojjone,

"Sei come er cane de Mustafà, che ho pjava ar culo e diceva de stà a scopà"


(*) Per chi non avesse ancora capito: italiano medio = COGLIONE

DOMANDE A BAGNAI



Pongo la seguente domanda a Bagnai sul FQ

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/03/leuro-una-moneta-che-funzionerebbe-solo-se-fosse-la-lira/898941/

E sul suo blog

http://goofynomics.blogspot.it/2014/03/il-keynesianesimo-per-le-dame-e.html

Sul FQ non viene pubblicata (in attesa di moderazione) e successivamente anche rimossa (uso disqus).

Cos’ha la domanda che non va? Vedete un po’ voi. Eccola.

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Egregio prof. Bagnai,

avrei qualche domanda da porle dove mi interesserebbe la sua opinione.

Se proprio dovessi farne una sintesi, io vedo la popolazione divisa in due gruppi: da una parte quelli che vorrebbero uscire dall’euro e dall’altra quelli che dell’area euro ne vorrebbero uno Stato Unito d’Europa. Mi chiedevo se non ci fosse una “terza via”, anche se momentanea, da percorrere?

1. Uscire dall’euro per sfruttare la leva sui cambi equivale a svalutare i salari e aumentare la competitività, ma equivale anche a un effetto spiazzamento che si traduce in inflazione e, di conseguenza, a una tassazione proporzionale.

2. Realizzare gli SUE significa sostanzialmente trasferire risorse dai Paesi in surplus ai Paesi in deficit: l’equivalente di oggi in Italia a livelli regionali/provinciali/comunali; significa anche redistribuzione e implica una tassazione progressiva.

Ecco, le dico subito che io sarei a favore della seconda ipotesi, perché considero (forse erroneamente) la tassazione progressiva quella di efficienza economica che massimizza il benessere sociale. Sappiamo benissimo entrambi che “i forti” non ne sono entusiasti e che la formazione della SUE allo stato attuale rimane un miraggio.

A questo punto, però, mi sono interrogato sulla possibilità di ulteriori manovre che vadano nel senso della progressione e dell’equilibrio economico in un’ottica legata all’euro. In altre parole, mi chiedo se esistono altre vie oltre all’austerity e la permanenza nell’area euro?

Sfogliando un po’ di manuali di economia mi sono accorto di un passaggio interessante: equilibrio tra imposte dirette e indirette in regime di cambi fissi per il riordino del saldo con l’estero. Perché, se il nostro problema è quello di organizzarci secondo il punto 2 e aumentare la competitività secondo il punto 1, l’impostazione di poc’anzi mi era sembrata adeguata.

In sostanza, la domanda è la seguente:

come vede lei la permanenza nell’area euro, sfruttando la leva sull’equilibrio tra imposizione fiscale diretta e indiretta in un’ottica di tassazione progressiva di efficienza economica in un regime di cambi fissi come terza opzione, per completezza d’informazione, da sottoporre in esame al vaglio democratico?

Saluti.

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Successivamente commento un altro post di Bagnai:

http://goofynomics.blogspot.it/2014/03/sunspots-e-stiftungen-perche-siamo-in.html

E scrivo il seguente commento che viene pubblicato. Eccolo.

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Io penso che l’imprenditore, che le ha inviato la lettera, ha intuito qualcosa. Qualcosa di grosso! Penso anche che la correlazione non implica una relazione causa-effetto e, di conseguenza, il grafico da lei riportato non può essere IN ALCUN MODO (e lei lo sa benissimo!) esaustivo.

Insomma, cos’ha intuito l’imprenditore? “utili rigorosamente reinvestiti”

La domanda potrebbe essere posta anche diversamente: lei ritiene che l’Italia avrebbe problemi di produttività e di occupazione SE TUTTI GLI UTILI PRODOTTI DALLE IMPRESE (MA ANCHE DAI LIBERI PROFESSIONISTI E ASSIMILATI, MANAGER/SPECULATORI/…) ANDREBBERO RIGOROSAMENTE REINVESTITI NEL PAESE?

Mi permetterei anche di segnalare quanto segue.

Se da una parte le svalutazioni competitive creano terreno fertile agli investimenti e all’occupazione (e questo successe fino al ’96) fanno lo stesso anche le Stiftung (questa volta per definizione); a differenza delle svalutazioni competitive le Stiftung non svalutano i salari e vanno in un’ottica progressiva, invece che proporzionale (svalutazioni) o, peggio ancora, quando è regressiva (austerity: come in questo periodo); se si parla di progressività, allora parliamo anche di efficienza.

Conclusione e provocazione.

Le Stiftung hanno salvato la Germania perché permettono l’efficienza economica; altrimenti la Germania avrebbe il nostro stesso identico problema.

Un passo in più.

Da una parte le Stiftung e dall’altra il modello danese, che impone il reinvestimento di utili e vieta le delocalizzazioni: il potere sindacale in Danimarca è alla pari della legislazione ordinaria e i sindacati sono compatti e uniti. Se vi interessa ho anche una mappa sulla diffusione delle Stiftung in Europa: guarda caso laddove la governance e il potere dei lavoratori sulle imprese è più forte, gli Stati in oggetto non hanno risentito della crisi. Non nei nostri termini. Le ragioni stanno proprio negli investimenti forzati.

Saluti

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L’articolo viene anche commentato dallo stesso Bagnai. Il suo commento.

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Se voleva dimostrare in modo esaustivo di non aver capito nulla ci è riuscito. Basta per tutte la sua affermazione che le Stiftung non svalutano i salari. Lasci stare, si occupi di ciò che sa, il dibattito in Italia ormai è troppo avanti per lei, glielo dico con solidarietà e rispetto. Se vuole capirci qualcosa, le suggerisco di leggersi prima questo, poi questo, e magari anche questo. Lei continui a illudersi sul modello tedesco, oppure cominci a ragionare sui fatti. Faccia lei.

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Io cerco di spostare l’attenzione sull'argomento e invio quello seguente:

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E’ inutile che lei attacchi la mia persona (forse non ho capito nulla, chissà, ma poco importa), invece che l’argomento, perché la domanda resta sempre valida:

“lei ritiene che l’Italia avrebbe problemi di produttività e di occupazione SE TUTTI GLI UTILI PRODOTTI DALLE IMPRESE (MA ANCHE DAI LIBERI PROFESSIONISTI E ASSIMILATI, MANAGER/SPECULATORI/…) ANDREBBERO RIGOROSAMENTE REINVESTITI NEL PAESE?”

Certo, sarebbe anche utile a chi ci legge se lei poi motivasse la risposta. Sarebbe anche molto utile capire se le Stiftung aiuterebbero a tale scopo?

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Che non viene mai pubblicato, anche se i commenti di altri utenti vengono tutti pubblicati successivamente.

Perché bagnai non risponde ed evita le domande? Anche perché, se ci fate caso, è molto preso a commentare e criticare commenti altrui. Non che io pretenda una qualche risposta e non che io voglia mettere in difficoltà nessuno. E’ lui stesso che continua come un disco rotto a sparar sull’euro. E non che io difenda l’euro, dico soltanto che prima dell’euro non è che si stava meglio degli altri e non è che i salari galoppavano (statistiche e commenti rigorosi li trovate ovunque: non è questa la sede per ribadire quel che è già noto). Dico anche che le strade non sono affatto soltanto due (euro o lira), ma in realtà sono tre. Quest’ultima è quella che “nessuno” vuol sentire, ossia applicare la conoscenza economica all’economia.

Bagnai ha paura della scienza economica? Forse, ed è seriamente probabile, perché come tanti altri (molto noti in tv) resterebbe privo di argomenti validi. Vedete, l’economia è una scienza ed è anche molto facile (non banale) da capire. Non usa strumenti matematici troppo complicati e spesso ci si cava con un po’ di algebra elementare e qualche considerazione rigorosamente logica.

Non dobbiamo scordarci della sua definizione: l’economia è la scienza che studia le risorse scarse che soddisfano bisogni della società. Non sono perciò estranei i concetti di efficienza, efficacia ed economicità, dove ci si avvale del linguaggio matematico per formalizzare le conclusioni. Allora, da economista ci si chiede (per lo meno ci si dovrebbe) come varierà la soddisfazione degli individui e della società nel suo insieme allorquando si modificano/introducono/abrogano alcune leggi?

Nella fattispecie in oggetto (l’euro) ci si dovrebbe chiedere qual è la via migliore, appunto, quella che soddisfa al meglio i bisogni delle persone? Anzi tutto, quante vie esistono? Quali sono le più efficaci, quali le più efficienti e quali le più economiche? Insomma, fare un elenco, e se siamo un popolo democratico (ne dubito), votare per la via che meglio ci aggrada. E il ruolo dell’economista? Beh, è facilmente da delineare: è colui che cerca soluzioni (tutte), fa ipotesi (di tutti i tipi), le analizza (sotto tutti i punti di vista), le pubblica e si mette a disposizione per ulteriori aggiornamenti e/o critiche (perché è uno scienziato).

E Bagnai? Beh, Bagnai guarda le cose da un'unica prospettiva, non è aperto alle critiche e non si mette a disposizione. Bagnai non è uno scienziato, tanto meno potrà mai essere un economista.

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SUPPLEMENTI

Coincidenza? Dopo aver pubblicato questo post il mio commento è finalmente apparso sul blog di Bagnai, con orario 14:22. Comunque, resta ancora senza una replica da parte del prof-blogger.

Stamattina ho visto anche molte repliche al mio commento di ieri sulle Stiftung, ma manca ancora la mia e comunque non sarei in grado di interloquire con nessuno perché i miei commenti non sarebbero pubblicati.

Che senso hanno tutti questi giochetti? mah...

PARADISI FISCALI: TOCCARLI SIGNIFICHEREBBE LA FINE DEL CAPITALISMO



Spesso, ma sempre meno (chissà perché?), si parla dei paradisi fiscali e dell’impotenza da parte degli stati di raggiungere, identificare gli elusori e rientrare dei propri soldi, in quanto molti stati non concedono informazioni riguardo ai nominativi e spesso neanche sulle rimanenze in conto corrente. Lo stesso discorso vale anche per le imprese con sede in tali regioni del mondo.

Siccome non so chi sia, non conosco l’esatto importo di ciascuno e non conosco nemmeno la strada dei capitali non posso far altro che tassare i residenti in patria perché da qualche parte avrei bisogno di finanziarmi? Questa è la retorica che almeno quelli più attenti si bevono quotidianamente.

E se dall’oggi al domani cambiassi moneta? E se lo facessi nel modo seguente. Cambio della moneta alla pari fino a un certo importo: per i residenti (aziende o imprese); sotto la pari in altri casi, magari molto sotto alla pari per importi provenienti dai paradisi fiscali. E se lo facessi ogni dieci anni?

Le formule possono essere delle più svariate, ma la logica di fondo permane: gli strumenti a disposizione per arrivare ai paradisi fiscali ci sono e non nuocono alla sovranità degli altri. Non sarebbe nemmeno un fatto isolato o inedito: si pensi alla riunificazione tedesca e al cambio con la Germania dell’Est; il cambio non fu uguale per tutti e per tutti gli importi, ma venne selezionato e diversificato.

Sapendo che alle scadenze prefissate i detentori di moneta in accumulo e non reinvestita saranno tassati alla pari, magari, di una patrimoniale annua ovviamente tenderanno a sbarazzarsene e deprezzerebbero la stessa moneta. Questo è vero fino ad un certo punto, quando tutta la moneta sarà minimizzata e, come è giusto che sia, finalizzata agli scambi e non all’accumulo il valore si stabilizza e il rischio di interventi straordinari si azzera.

Come sappiamo il passaggio da un sistema D-M-D’ ad uno del tipo M-D-M comporta anche altri “inconvenienti”, ossia il rischio della delocalizzazione di imprese private, in quanto orientate al profitto e quindi all’accumulo (lecito o illecito che sia).

Il nodo da sciogliere, ancora una volta, resta comunque la proprietà e il possesso privato, ma non mi stancherò mai di ripetere, che il superamento della proprietà privata non è un fine, ma un mezzo. Un mezzo che poi dovrà tener conto per forza di cose di tutte quelle teorie scientifico-borghesi sull’efficienza ed efficacia economica e come si raggiungono. In altre parole, bisogna studiare Marx e Keynes per comprendere i limiti e le correzioni fallimentari al capitalismo, ma poi una volta raggiunto l’obiettivo, quello di abrogarlo, bisognerà che i compagni si mettano a studiare seriamente tutta quella marea di modelli e metodi economico scientifici ideati e promossi dalla borghesia per saper applicarli costruttivamente al socialismo.



TEORIA E PRATICA COMUNISTA: UNA FUSIONE AUSPICATA, UN PARADOSSO PERPETUO




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Non nego la mia simpatia per il PCL, dove vedo e riconosco un escalation libertaria. Non so perché ciò avviene: forse per allargare il proprio consenso o semplicemente perché il tempo e lo studio dei processi sociali non può che portar su tali vie. Si badi bene, l’utopia che accomuna quelli come “me” e quelli come “loro” è la medesima, ma è l’implementazione pratica che ci trova spesso in contrasto.

Sono dettagli non da poco, come non lo sono le contraddizioni nell’articolo e nel modus operandi del PCL. Non ci si può richiamare a coloro che non vogliono essere chiamati in causa e non si possono sostenere coloro che remano nel senso opposto. Se l’operaio tace e acconsente, o peggio ancora se avvalla un tale sistema di cose, egli non può essere un interlocutore valido e non si possono portar avanti delle guerre in nome suo. Che l’operaio sia ignorante, che sia interdetto, o che sia soltanto un credulone, poco importa, ma la battaglia va fatta con chi ci sta e con chi l’ha capita. Non bastano nemmeno i tifosi rossi, quelli che aspettano l’ennesimo corteo gridando col pugno chiuso, ma quotidianamente genuflessi al servizio del padrone.

Non basta nemmeno un occasionale dissenso verso la CGIL e, peggio ancora, se nelle pagine interne del sito si immettono link riportanti al sindacato in questione.

“bisogna mettere in discussione quella società capitalista che la Costituzione tutela”, sì, ma con i fatti e con la coerenza. Quanti di voi “comunisti” hanno un lavoro dipendente? E quanti di voi sarebbero disposti ad accettarne uno? Quanti di voi studiano la società nel suo insieme? Non parlo soltanto dei libri rossi! Quanti di voi studiano alle università per farsi un “mestiere” di alto profilo?

Non dimentichiamoci che il comunista studia per tutta la vita e rifiuta il padrone e non vuole diventarlo. Allora, come si applicano i principi progressivi richiamati dalla costituzione su basi socialiste? Cosa sono le basi socialiste? Cos’è il socialismo?

Se a decidere sarebbero i lavoratori com’è che ci si auspica una legge elettorale proporzionale? Casomai, non ci si auspica alcuna legge elettorale. Sappiamo bene che il lavoratore parlamentare (un ossimoro a tutti gli effetti) non è altro che un borghese moderno. Come mai la storia non vi ha fatto capire niente?

Dal mio punto di vista, ovviamente libertario (e prima ancora scientifico e razionale), ma allo stesso tempo realista e pratico, se la divisione politica del mondo ci impone una transizione prolungata in forme più o meno autoritarie queste andrebbero minimizzate (la parola ha un senso scientifico notevole). Le imprese autogestite in forma cooperativa (non quelle all’italiana) funzionano nel modo seguente: i lavoratori riuniti in assemblea scelgono il proprio governante e rappresentante conferendogli una fiducia revocabile in qualsiasi momento; sulle questioni straordinarie è comunque l’assemblea a decidere, ma quasi sempre, e come è giusto che sia, sulla proposta del governante.

Mi chiedo, se queste cose sono quelle che funzionano, e sono allo stesso tempo socialiste e pratiche, perché non prenderne spunto e generalizzarle in un ottica nazionale e forse anche accompagnarle ad una proposta a livello internazionale? Le conclusioni sono presto fatte: i lavoratori si scelgono i ministri e sottosegretari, che saranno sempre revocabili (magari con delle elezioni annuali), mentre le leggi dovrebbero essere comunque avallate dai lavoratori stessi, che potrebbero proporne anche delle nuove. Se i governanti agiscono secondo legge, le leggi stesse sono da considerarsi di natura straordinaria.

Insomma, una volta all’anno per decidere sul buon governo ed eventualmente sceglierne un altro e nello stesso giorno riflettere sulle leggi emanate dallo stesso governo o da quelli precedenti; magari  lasciando anche un periodo di prova sulle leggi stesse, nel senso che la verifica andrebbe fatta a posteriori (non mi divulgo troppo sull’ignoranza dei singoli, che non ci credono finché non provano).

Allora, a che serve il parlamento? A maggior ragione se si considera che anche oggi, come in passato, il parlamento è stato scelto dai lavoratori, siccome sono la maggioranza nel paese. O forse, mi sfugge il significato del lavoratore? Penso di no, ma questo mi riporta a quanto esposto di sopra, se i lavoratori hanno scelto e continuano a scegliere e a sottostare ai governi borghesi e alla borghesia in generale, che senso potrebbe mai avere il rifacimento al lavoratore in quanto tale?

I lavoratori vanno distinti tra di loro: tra i lavoratori dipendenti (quelli che l’hanno capita e quelli che non l’hanno capita) e quelli indipendenti. Anche tra i lavoratori indipendenti le scelte vanno compiute: ci sono quelli che sfruttano il lavoro dipendente e quelli che hanno optato altrimenti. Questi ultimi, magari non sapendone nulla sul comunismo si comportano come tali: sono tornati alla naturalità delle cose e vivono liberamente in equilibrio con altrettanti individui a loro volta liberi. Non bisogna scordarsi delle cooperative e dei consorzi di artigiani: questi ultimi sono forse il futuro della convivenza civile.

Si può essere comunisti non sapendone niente del comunismo? Questo è impossibile! Infatti, la coscienza in generale, non di meno quella comunista, si acquisisce unicamente con la conoscenza,  teorica e pratica.

Così avrei descritto uno scenario pessimista e magari critico a prescindere verso un movimento politico; magari mi sarei anche contraddetto esprimendo la mia simpatia per quest’ultimo. Quello che mi passa per la testa è che le rivoluzioni (parlo di quelle silenziose) non possono che essere accompagnate da coloro che il mondo lo desiderano in modo diverso e più giusto, da quelli che studiano, ma anche da quelli che tali rivoluzioni incominciano ad applicarle, anche se inconsciamente, perché le vivono quotidianamente.

E se i due fronti, quello teorico (inconcludente e spesso contraddittorio) e quello pratico (ancora inconscio) si fondessero?


Hasta La Victoria Siempre.

COOPERAZIONE E RISPARMIO


«Vi sono oggi molti benpensanti, animati da amor di patria, i quali ritengono che la cosa più utile [..] sia risparmiare più del solito. Costoro [..] ritengono che la giusta politica in un momento come questo consista nell’opporsi all’allargamento della spesa per lavori pubblici [..]. 

Ma quando vi è già una forte eccedenza di manodopera [..] il risultato del risparmio è soltanto quello di aumentare questa eccedenza [..] Inoltre, quando un individuo è escluso dal lavoro [..] la sua ridotta capacità di acquisto determina ulteriore disoccupazione [..] 

La valutazione migliore che posso formulare è che quando si risparmiano cinque scellini, si lascia senza lavoro un uomo per una giornata». Ineccepibile eppure eversivo, forse ora ancor più di allora. Perché negare che il risparmio si tramuti interamente in investimento significa di fatto evidenziare una gigantesca contraddizione insita nel capitalismo individualistico governato dalla finanza privata. 

Un capitalismo che proprio sulla separazione tra risparmio e investimento vive e prospera, ma a quanto pare su di essa rischia pure di implodere.


***

Tutto vero, giusto, ma gli faccio comunque una critica non da poco.

Keynes, come anche forse Brancaccio ed altri keynesiani non hanno mai capito è che il privato tenderà sempre a risparmiare (accumulare), proprio in quanto privato. Non solo! Cercherà “umanamente” a conservare tale status e ne diventerà pure dipendente (malato!): a tal proposito la ragnatela di rapporti personali e familiari ne farà un animale senza scrupoli. Corrompendo la politica per preservare la malattia è facile uscire dal keynesismo e ritrovarsi ancora una volta nel neoliberismo.

Analizzare l’economia senza la filosofia, la psicologia e la sociologia (generalmente in assenza di altre discipline umanistiche) non porta a risultati soddisfacenti.

Seconda critica: economica in senso stretto.

Ammesso e non concesso che i prezzi varino: cosa succederebbe con i mezzi di produzione a fronte di una platea di superricchi che detiene molte volte il PIL del Paese? Ovvio, la concentrazione dell’economia si conterebbe sulle dita di una sola mano. E quale sarebbe la perdita sociale dovuta al supermonopolio di atto o di fatto? Non contando il punto precedente: l’intreccio tra economia di 2/3 superricchi e la politica.

Ad un certo punto storico dovremmo, dunque, porre dei limiti all’accumulazione dovuta alla spesa in deficit? E se lo si fa, perché mai i “ricchi concentrati” dovrebbero anche soltanto eseguire le commesse statali?

Vedete, il neoliberismo trova tutte le sue contraddizioni anche soltanto nel breve periodo, ma il keynesismo le trova comunque nel lungo.

Per capire meglio ciò che sto per esporre vi proporrei anche il materiale seguente:


nonché una delle illuminanti puntate di Report:


e non da meno:


In qualunque modo si voglia chiamare (economia del bene comune, o economia basata sulle risorse, o sistema di cooperative, o anche soltanto all’antica, cioè comunismo) il fine ultimo permane, ossia un economia rivolta alla soddisfazione dei bisogni in armonia con l’ambiente e non orientata al profitto. Se proprio volete, chiamatela soltanto economia: fare economia non significa altro che il miglior impiego possibile della risorsa scarsa. Tale impiego non può essere svolto al meglio se non orientato alla persona e all’ambiente nel suo insieme. Che altrimenti sarebbe antieconomico, quasi per definizione. Le ragioni sono talmente ovvie che ometto.

La scientificità delle operazioni, come anche l’assenza del profitto portano all’economia; in alternativa si discostano, anche sensibilmente dalla disciplina. Sentir parlare della massimizzazione del profitto in economia è, dunque, una contraddizione in termini, essendo il profitto antieconomico per sua natura.

Ma se tutti producono per la comunità e non più per se stessi, che senso avrebbero ancora il mercato e la moneta stessa?

Se aspettiamo che tutto il mondo (parliamo di 7 miliardi di persone) prenda coscienza in pochissimo tempo, ci illudiamo e di fatto non saremmo meglio di coloro contro i quali lottiamo: saremmo soltanto un’altra setta religiosa messa in fila. E’ anche vero che soltanto una nazione nel suo insieme acquisisca questa consapevolezza, anche quelle di piccole dimensioni, è al momento utopico di per sé. Potremmo già cantar vittoria se riuscissimo a convincere soltanto mezzo San Marino!

Però, creando tante piccole consapevolezze quante siano le piccole realtà isolate potremmo spargere un virus letale per l’attuale sistema socioeconomico. Già, un sistema che produce per la comunità, magari soltanto per una comunità di 20 persone, appunto, per la comunità di fabbrica, ovvero la cooperativa. 

Se parliamo di interazioni tra queste comunità, o anche tra le comunità e le attuali imprese private, o anche tra la comunità e il regime burocratico dominante, allora parliamo di scambio, di mercato e di moneta, sì, ma con una notevole differenza: la comunità non produce più per il profitto (risparmio e accumulazione), ma per il reddito dei singoli che vi partecipano.

Allora, vi faccio una domanda semplice, ma non banale: chi è più comunista, un artigiano (o un consorzio di artigiani) o un lavoratore dipendente? Ovviamente, intendo artigiani in senso stretto e non quelli che usano lavoratori dipendenti.

Perché un comunista dovrebbe proteggere il lavoratore dipendente, uno che si è piegato e lavora per il profitto? Soltanto perché è inconsapevole e perché poveretto bisognoso di aiuto? Beh, guardate, se usiamo la testa fino in fondo la logica non potrebbe essere che la seguente: non sono qui per fare moralismi o per commiserare qualcuno, ma per ragionare; se uno in sede di lotta non fa altro che elemosinare qualche euro in più dall’enorme profitto che produce e alimentando di fatto il sistema fallimentare capitalistico, io non posso che essere contrario, in quanto tale lotta risulta essere antieconomica.

Capisco cos’è la schiavitù e capisco anche l’indottrinamento e per questi motivi non posso essere neanche contro l’operaio: posso soltanto continuare con la mia lotta e in attesa aiutare gli operai che la smettano con le loro idee antieconomiche che alimentano lo sfruttamento.

Di conseguenza il punto del programma comunista è il seguente:
-nessun sostegno ai sindacati che alimentano il sistema capitalista e nessuna guerra aperta al sindacato
-sostegno aperto ai singoli, alle imprese, gruppi di imprese e sindacati che attuano e lottano per un sistema cooperativo e non orientato al profitto (risparmio e accumulazione)

In attesa che il mondo capisca e in attesa che il risparmio arrivi al capolinea io da comunista posso mettermi in gioco e incominciare almeno con una parte del programma, ovvero la cooperazione produttiva tra le persone.

ISTRUZIONE E INDOTTRINAMENTO: INTEGRAZIONI AL SECONDO PUNTO


Quanto scritto nei tre post precedenti è facile accorgersi che un conservatore pensa alla propria libertà acquisita o che potenzialmente potrebbe acquisire in futuro mentre un riformista pensa alla giustizia sociale. Già, ma quale giustizia?

Una cosa è giusta se sia anche vera ed è vera se sia conforme alla realtà oggettiva o alla logica. E' facile intuire che le uniche due variabili a nostra disposizione siano “soltanto” la storia e la matematica, la storia come premessa di una realtà oggettiva e la matematica come proiezione per le decisione future. Ogni modello matematico, quale legge semplificata del comportamento complesso, che cerchi di spiegare un fenomeno sociale si basa sugli eventi storici. Conoscere la storia, quindi, è strettamente necessario, ma non è affatto sufficiente! Potendo disporre di svariate statistiche, come anche di cause dei fenomeni, senza la matematica resterebbero inutili numeri sulla carta. Non sapremmo cosa farcene nelle sedi decisionali, non avendo, appunto, nessun strumento rigoroso a nostra disposizione. Spesso è proprio così e si procede per tentativi e ad esclusioni. Il metodo a ritroso siffatto (sbaglia e riprova) non è efficiente, per cui non può essere quello giusto perché non è vero e, quindi, nemmeno etico, tanto meno comunista.

Chi conosce la storia o la matematica è alla metà dell'opera, ma chi le conosce entrambe può considerarsi intelligente; chi ignora anche solo parzialmente le due discipline non possiede alcun strumento di analisi e non gli resta che la fede. Il fedele crede o meno alle parole altrui, dove il meno o il più sono da imputarsi alle sensazioni che, bene o male, possediamo tutti. L'obiettivo del conservatore è proprio quello di parlare al sentimento dello stolto per il proprio tornaconto e imprimergli paure e speranze che altrimenti non avrebbe. Tutta la propaganda, tutte le trasmissioni e articoli dei mass media e tutta la comunicazione in generale non fanno altro che creare paure (falsi problemi) e dare speranze (false risposte) alla massa che non ha mai studiato. Dallo yogurt al signoraggio, dalla partita della domenica all'insegnante a scuola, tutto è funzionale alla comunicazione al credente di turno, ignaro e volutamente addormentato dal conservatorismo vigente che protegge se stesso e le proprie fortune acquisite.

Così, non ci si chiede più sulla qualità di un determinato bene o servizio, ma ci si chiede erroneamente di chi lo ha prodotto, in quanto fiduciosi e fedeli: non importa se una scuola “fabbrichi” gente sveglia, importa invece il nome della stessa, come non importa se un docente sappia trasmettere un po' di spirito critico, importa invece se sia portatore di qualche premio internazionale. Si pensi ai voti nelle scuole: a che cosa servono e a chi giovano? Siamo sicuri che i voti rispecchino le conoscenze dei fatti storici e delle leggi matematiche, ma soprattutto, siamo sicuri che i fanciulli riescano ad usare questi strumenti in modo critico? E' forse quest'ultimo il tassello mancante. Se le due discipline risultano strettamente necessarie il saper collegarle ed usarle opportunamente fa di noi degli esseri sapienti. C'è bisogno, dunque, non solo di teoria, che insieme alla pratica diventano condizioni sufficienti.

Un uomo sapiente può aver commesso molti errori nel passato, poco importa, ma nulla toglie che dagli errori ha saputo cogliere insegnamento. Se lo scopo nelle scuole dovrebbe essere quello di “fabbricare” persone sapienti allora il voto andrebbe fatto alla fine del percorso di studio e sulla base delle capacità di risolvere o meno un problema complesso e inedito a prescindere dal tempo. A tal proposito, che senso potrebbero mai avere le medie dei voti, le sedi d'esame, gli interrogatori e i voti stessi? Appunto, nessuno! Che basterebbe alla fine del percorso di studi porre allo studente un problema complesso e risolverla con un semplice “promosso”.

Per rendersi conto di tale impostazione si pensi alle elementari. Ognuno di noi aveva ottenuto voti differenti, alcuni sono stati anche bocciati, ma nel tempo tutti noi abbiamo imparato a leggere, a scrivere e a fare i conti semplici. Se adesso tutti noi tornassimo alle elementari saremmo promossi ovviamente con il pieno dei voti; dall'altra parte, chiedete a qualsiasi medico con 20 anni di esperienza di quanto si ricordi del corso di matematica o di chimica organica, ma non per questo egli non possa essere un ottimo medico e non per questo se ritornasse all'università, senza studiare nuovamente e impegnarsi, sarebbe bocciato al primo anno. Allora, a che cosa sono serviti tutti quei voti e tutti quegli esami se un professionista qualsiasi se ne ricordi molto poco e se per essere tale necessita di qualche anno di esperienza e se la sua sapienza va orientata da un'altra parte!

La scuola deve essere funzionale alla soluzione dei problemi reali e soprattutto alla capacità di risolverli ed è proprio questa capacità che andrebbe valutata e promossa. Sicuramente un medico con anni di esperienza la sa molto più lunga di un neolaureato e se portassimo alla sua attenzione dei problemi di salute complessi egli sarebbe promosso a pieno titolo mentre il neolaureato alle condizioni universitarie attuali lo bocceremmo quasi sicuramente. Alla pari può essere vista la scuola primaria e secondaria, che non darebbe sicuramente titoli professionali, se non si vuol considerare la “professione di persona umana”, ma una verifica sulla conoscenza delle soluzioni dei problemi della vita quotidiana meriterebbe comunque un tale approccio.

Spiegate le ragioni ora possiamo integrare anche il primo del secondo punto del programma comunista:
-abolizione dei voti nelle scuole e nelle università
-valutazione dello studente alla fine di ogni percorso formativo (scuola primaria, secondaria e terziaria)
-la valutazione, promosso o bocciato, consiste in prove unicamente scritte sulla soluzione di problemi complessi e reali in sede dell' Esame di Stato
-chiunque superasse le tre prove (primaria, secondaria e terziaria) avrebbe pieno titolo all'esercitazione della libera professione e a prescindere dalla frequenza dei corsi di studio o dall'iscrizione nelle scuole o nelle università

Questo vuol dire, ovviamente, concentrare tutte le forze su quell'esame finale, che sarebbe comunque lungo e articolato, non banale e che impegnerebbe sicuramente anche molti giorni e raggiungerebbe problematiche delle più svariate.


TECNICA LIBERTARIA: INTEGRAZIONI AL PUNTO 2


Non poche volte abbiamo letto e sentito sulla gratuità di taluni beni e servizi come molto poco si sono sviluppati dei ragionamenti seri intorno al possesso diretto sulle attività comuni da parte dei diretti interessati e della cittadinanza in generale. Invocando la gratuità e il possesso diretto, sebbene trovano ragioni filosofiche forti, non è affatto scontata la loro tecnica d'implementazione: se taluni usufruiscono gli altri pagano e se certi posseggono i restanti stanno a guardare; se gli attuali posseggono non ci sarà mai un ricambio generazionale e se la nuova generazione usufruisce quella vecchia paga, ma pagano tutto gli attuali occupati e non proprio in proporzioni giuste, come anche non detengono il giusto dovuto.

Le domande, dunque, sorgono spontanee: quant'è il giusto da pagare e quant'è la giusta quota da detenere nel tempo? Restando con le buone intenzioni e non rispondendo tecnicamente a tali quesiti si rischia di pasticciare come in passato, lasciando a preferire l'ideologia borghese piuttosto che concentrarsi sull'etica. Sviluppando le domande ulteriormente si arriva ancor più a monte del problema scontrandosi con quanto segue.

La libertà degli insider tende a rafforzarsi nel tempo per ovvie ragioni che concernono l'arrivo della nuova generazione e ci si pone il problema del loro potere contrattuale; in diretta connessione con tale potere vi è proprio l'esborso al welfare che, essendo a loro relativamente meno necessario tendono minimizzarlo, mentre gli outsider ne chiedono sempre più. Così, a qualsiasi sistema noi facessimo riferimento il problema non può essere snobbato: il tempo rafforza gli insider che fa aumentare la loro forza contrattuale, che fa aumentare la loro libertà, che fa aumentare le loro disponibilità e il controllo sul resto della popolazione. Che gli insider siano borghesi, burocrati di partito (incluso quello comunista), aristocratici o preti, poco importa! E avrei potuto includere anche i vecchi lavoratori di una qualsiasi azienda, piccola o grande che sia.

Il tempo, anche soltanto in quanto tale, dunque, gioca a nostro sfavore: fa aumentare la “domanda di welfare” mentre protegge i vecchi che tale domanda creano e dovrebbero anche pagarla. Come ho già detto, vi è di più, non solo si crea un bisogno altrimenti non necessario, ma si rifiuta sempre più di concederlo! Un paradosso, certo, anche stupido, ma si spiega molto banalmente con il concetto di libertà.

Entrando in un impresa o solamente fondandone una che funzioni, mentre si affacciano gli outsider cercando di inserirsi vengono rifiutati, semplicemente perché si è liberi di farlo. A loro non resterà che chiedere sussidi, ancora una volta rifiutati dagli attuali insider che hanno il potere contrattuale e la libertà per negarli. Poi ci si stupisce della criminalità, a mio avviso, ovvia e naturale in un sistema esclusivo e conservatore. In seguito la domanda di sicurezza aumenta, pagata sempre dagli attuali insider, anch'essa sempre più onerosa e scadente. Alla fine, il sistema non può che crollare con tutte le sue contraddizioni, come sta crollando e come è crollato in passato, incluso quello sovietico. 

Poco importerebbe se le imprese o la società nel suo insieme fosse fondata sulla proprietà privata o collettiva perché ciò che conta davvero è che gli insider di qualsiasi ordine e grado facciano spazio agli outsider. 

Gli outsider entrano a pieno titolo inserendosi nella società, chiedono meno welfare, la sicurezza aumenta e lo Stato si minimizza, oserei, potrebbe anche estinguersi, diventando ad un certo punto superfluo. Tale principio della porta aperta implica necessariamente la possibilità di scelta, la quale livella le libertà esistenti tra tutti i partecipanti, ivi inclusi quelli futuri. In tal caso non si può prescindere dal concetto di concorrenza e di mercato: se un azienda virtuosa funziona meglio, nel senso che lavora di meno e produce di più, attira sempre più persone, le quali, ovviamente possono parteciparvi liberamente fino al punto in cui il maggior guadagno non si estingue dal “sovraffollamento” quando non si affacceranno più ulteriori partecipanti alla stessa.

Si evince che la società inclusiva è anche concorrenziale e risponderebbe bene alle leggi del mercato, ma non alle leggi sulla proprietà privata o del possesso esclusivo. Se la società comunista risponderebbe bene al modello concorrenziale ci si chiede se l'attuale modello sia proprio questo? Ebbene, non lo è! Perché se fossimo soggetti alla concorrenza perfetta non avremmo disoccupati né debito pubblico, come neanche dei profitti positivi e sfruttamento del lavoro.

A tal punto si veda almeno quanto scritto su Wikipedia:


Tecnicamente il modello si realizza nel modo seguente:
-il disoccupato (spesso giovane) chiede di essere assunto in una qualsiasi impresa
-l'impresa deve assumerlo
-calano le ore di lavoro per lavoratore
-si spartisce il reddito d'impresa secondo il nuovo numero di occupati
-la domanda di welfare resta minima, non si aggravano i contributi e la spesa pubblica scende
-i vecchi vanno in pensione facendo aumentare le ore di lavoro per lavoratore e la spesa pubblica sale 

La spesa pubblica può e deve anch'essa essere gestita dagli stessi lavoratori, in quanto diretti interessati. Così la confindustria e il sindacato dei lavoratori diventano un tutt'uno che gestisce l'intera società su basi etiche. E' questo il punto sul quale mi concentrerò in seguito: dare una risposta etica alle implicazioni del modello comunista (e non sono poche: si pensi al finanziamento delle imprese o neoimprese), dove dimostrerò che privarsi “oggi” di un po' di libertà a favore dei “nuovi arrivati” conviene anche agli stessi insider, nel senso che -detto in soldoni- gli conviene parecchio.

W IL COMUNISMO E LA LIBERTA'


Libertà: “Condizione di chi può agire senza costrizioni di qualsiasi genere”

Chi può mai pensare di entrare in casa d'altri e prendersi ciò che vuole! Io non parlerei mai di libertà assoluta, è sciocco, casomai di quella relativa. Sì, ma relativa a chi o a che cosa? Di conseguenza ci si chiede sulla libertà come causa o come effetto. Ci si potrebbe interrogare anche sulla massimizzazione della libertà, o della libertà collettiva, o anche sui limiti oggettivi della stessa. Ma se si assume la scienza come metodo di conoscenza allora ciò che conta è la giustizia delle azioni: la libertà resta un effetto e i quesiti di cui sopra decadono.

Associare il comunismo con la libertà è una contraddizione in termini! Ma allora cos'è il comunismo?

Se l'organizzazione della società comunista va fatta in assenza della proprietà privata poco interesse suscitò il possesso della stessa. Si pensi alla nuda proprietà. Di conseguenza, associare la libertà alla proprietà privata troverebbe non pochi ostacoli. Un esempio: poco potevano i sovietici agli inizi del 1990 contro le privatizzazioni, anche se “la proprietà appartiene al popolo”; e poco potevano incidere i sovietici nelle proprie aziende e sul proprio territorio prima del 1990, anche se “la proprietà appartiene al popolo”. Il possesso era comunque centralizzato in poche mani.

La libertà come effetto della proprietà privata non può trovare piena applicazione e di conseguenza associare il comunismo con l'abrogazione della proprietà privata è roba da religiosi lobotomizzati.

Un riassunto per i fedeli: l'abolizione della proprietà privata non implica il comunismo; la libertà è un effetto del potere contrattuale e non è infinita; la giustizia è la causa prima indipendente.

Se è giusto allora è vero, e se è vero allora è anche scientificamente corretto, e se è corretto allora resisterà al tempo: così la giustizia diventa la morale. La ricerca della verità è necessariamente etica, in quanto critica per definizione, mentre quando la morale determina la giustizia non si può parlar di comunismo. Se sia giusto lasciar taluni indietro può esser motivo di discussioni, anche accese, ma se si pregiudicano i cammini di intere fette di popolazione la discussione non potrà neanche aver inizio, come non potrebbero farlo neanche in condizioni contrattuali minori.

Di conseguenza, se si è etici, necessariamente si è anche comunisti e se si è comunisti non ci si appella alla morale. L'effetto è immediato: abrogare gli usi, le consuetudini e il buon costume dal lessico civile.

CHIAMIAMO COMUNISTA UNA SOCIETA' INCLUSIVA ED ETICA E CHIAMIAMO COMUNISMO LA LOTTA CONTRO LE ESCLUSIONI E I MORALISMI.

Le considerazioni di sopra hanno come risultato il seguente punto del programma comunista.

2. Condizioni minime di partecipazione cittadina:
-accesso incondizionato e gratuito all'informazione e all'istruzione (implica, radio, tv, giornali, internet, scuole e università, biblioteche, completamente a carico della collettività) 
-possesso indiscusso e diretto di tutte le attività a parità di altre persone

La libertà è, dunque, uguale per tutti e quindi non é; mentre il concetto di uguaglianza è anch'esso un effetto e non la causa. La verità implica il comunismo mentre non è vero il viceversa; la libertà invece nega la verità e provoca gravi ingiustizie, come la stessa ideologia liberista attuale.

Nel prossimo post approfondirò ulteriormente il concetto di libertà e vedremo come la stessa implica passaggi delicati e offre soluzioni non banali che tecnicamente arricchiscono il punto due del programma esposto di sopra. 

Ai lettori affamati di cifre, statistiche e modelli economici e sociali chiedo di pazientare un po'.

IL PROGRAMMA, PRIMO PUNTO: CHI E' CHE DOVREBBE GOVERNARE?


Seguendo Platone i governanti dovrebbero essere quelli sapienti e, tutto sommato, almeno a priori non avrei nulla da obiettare, ma alcuni dubbi sorgono spontanei: chi sono i sapienti e come sceglierli? Se la conoscenza prescinde dalla volontà dei singoli allora la democrazia non ha alcun senso e non hanno alcun senso le valutazioni sulle singole persone, come neanche alcun tipo di elezioni democratiche. Questo implica necessariamente “il principio della porta aperta” alla conoscenza per tutti e indistintamente. Significa anche che chiunque riuscisse ad “assorbire” la materia in esame entrerebbe a pieno titolo nel “club” dei sapienti.

Se la comunità scientifica non riuscisse nell'impresa o comunque avesse opinioni contrastanti un minimo di voto risulterebbe necessario, non perché ideologizzati (e ci starebbe pure), ma proprio perché il reale non implica la piena coscienza sullo stesso e allora la volontà o, se volete, il credo sarebbero l'ultima spiaggia. Già, ma solo in alternativa e non come accade ora, che siano la regola.

Se parla la comunità scientifica, parla il loro rappresentante (è un portavoce soltanto) colui che, ancora una volta, è stato eletto per farlo. Anche in questo caso un minimo di elezioni restano necessarie, ma dentro alla comunità stessa, perché dentro siffatta comunità ci si “persuade” con l'intelletto. ...mica con “abolirò l'IMU”!

Se la “cura” dei sapienti fosse troppo amara o troppo dannosa non resta che il dissenso, appunto, referendum unicamente abrogativi.

Che sia il seguente come primo punto del programma comunista.

1. Abolizione di ogni forma di elezioni democratiche per il governo del paese e sostituzione della stessa con:

-le decisioni, sia sui temi specifici, sia sull'elezione del ministro e sottosegretari vengono prese nelle università
-ogni facoltà è collegata con le altre
-ogni facoltà forma un comitato scientifico
-il comitato scientifico elegge il proprio rappresentante
-il comitato scientifico si compone da tutti i laureati di tale facoltà
-ogni laureato ha diritto di voto
-le decisioni vengono prese a maggioranza
-si sommano i voti di tutte le facoltà
-i corsi di laurea sono gratuiti e aperti a tutti i cittadini (il punto più importante)

Questo sistema eviterebbe discussioni tra sordi ed elite di vario genere. Implica una SOCIETA' BASATA SULLA CONOSCENZA, anziché sulla volontà.
Detta proprio terra-terra, così, se uno vuol contare qualcosa, STUDIA e si APPLICA!
Se parliamo di socialismo scientifico, che scientifico sia!

Come si instaura un sistema del genere?
Basta una battuta per rendersi conto della banalità mostruosa: non si può sapere tutto ed è sciocco soltanto pensarlo, figuriamoci metterlo in atto; non puoi guidare la macchina se non hai la patente; non puoi dire a un chirurgo come si opera, ...è stupido, non sei un chirurgo.

Sei sicuro di conoscere il codice della strada e saper guidare anche non avendo la partente? Sì? Allora me lo dimostri, ma, appunto, vai a fare l'esame per la patente! Sei sicuro di saper operare come un chirurgo? Sì? Allora vai a farti gli esami all'università, che così mi dimostri che lo sai fare sul serio!

Così anche, sei sicuro di sapere qualcosa sull'economia, pur non essendo economista? Sì? Allora me lo dimostri, appunto, vatti a fare tutti gli esami alla facoltà di economia, che poi ne riparliamo!

La verità è rivoluzionaria e la verità è anche questa, anche quando non ci fa comodo!




CRITICA AI COMUNISTI



Supponiamo che una persona inizi a curiosare in giro per la rete sui vari siti comunisti, magari questi (tanto per citarne, secondo me, almeno i due più “autorevoli”):



Cosa propongono questi? Hanno un programma? Se sì, dove sta? Dovrebbe forse sfogliare tutte le pagine del sito per farsi una vaga idea di che cosa s’intendono i comunisti? Forse dovrebbe guardarsi qualche intervista dei militanti dove si parla in linea generica della giustizia sociale?

E’ efficace la comunicazione siffatta?

Non prendiamoci in giro, che oltre alla teoria e qualche sterile critica non vi è nulla. Niente di niente!
Cosa pensate, cos’è più efficace delle due, “abolirò l’IMU” o “faremo giustizia sociale”. Sì, farete giustizia sociale, magari quando un giorno capirete come si fa, magari quando ne pubblicherete la tecnica per arrivarci, che fino a quel giorno l’IMU mi sta proprio sul pisello e voterò colui che me la toglie di torno.

Ah, ho capito, si abolirà la proprietà privata. Me coglioni! Come vi permettete di prendervi casa mia!

Certo, non è tutto così, ma quanto uno bisogna che sii informato per “non cascarci”? Dall’altra parte, certo che non è tutto così, ma sinceramente poco ci manca! Che Grillo con quelle quattro proposte demenziali si è beccato il 25%: ciò dovrebbe far riflettere in primis i critici, appunto, comunisti (ammesso e non concesso che i due partiti di sopra lo siano e che siano formati dagli stessi)!

Ormai mi sto convincendo sempre più, dati i fatti, che di partiti comunisti non ne esistono più e forse non sono mai esistiti. La necessità di avere un luogo di critica e di proposta, di protezione e prospettiva, va sempre più aumentando. Altrimenti non si spiegano le piazze sparse qua e là, come neanche il declino morale continuo. Non basta definirsi comunisti, è facile ed è fin troppo banale, ma bisogna studiare la società nel suo insieme, un lavoro che non può essere svolto singolarmente, come non si può neanche pretendere di averla capita unicamente autodefinendosi comunista.

Se la borghesia ogni tanto propone qualcosa i comunisti non propongono alcunché. Di chi è la colpa, di colui che furbescamente cerca di rubacchiare un po’ di consensi facili o di colui che non si fa mai avanti tenendo le mani in tasca, magari autodefinendosi comunista pensa di essersi elevato a un grado superiore? Io la chiamerei superbia quella dei cosiddetti comunisti di oggi e, visti i fatti storici, forse anche quelli di ieri.

Nel prossimo post pubblicherò quello che secondo me dovrebbe essere il punto di partenza per un programma comunista.


VOGLIO FARE IL COMUNISTA!



Beh…tanto di cappello. Vuol dire un impegno quotidiano a orario continuato, passare la vita tra i libri e confronti con opinioni contrastanti di continuo: studio delle teorie borghesi fino alla nausea, ripudio in qualsiasi forma del lavoro dipendente e subordinato, lotta continua con la burocrazia e l’opinione comune, essere pronti all'esclusione sociale, ma include anche lo studio dei fatti storici, presuppone l’essere ottimi matematici e saper proiettare le scelte nel futuro.

Essere comunista è un impegno non da poco, non è banale e non può essere svolto in solitudine, che necessità di discussioni collettive. Saper criticare ed essere aperti alle critiche dove non trovano spazio il sentimentalismo e il pregiudizio.

Il comunista è colui che quotidianamente spezza quella linea sottile che unisce il credo con i propri interessi, cerca di capire quali siano le forme di lotta più adeguate a tali convinzioni indottrinate. Il comunismo è la lotta continua alle ideologie, tutte le ideologie, di qualsiasi tipo o provenienza, ivi inclusa quella comunista, se mai ce ne fosse stata una.


Sei ancora pronto a passare la tua vita studiando e sapere che ne ricaverai ben poco o niente nell'immediato?

Qualcuno era comunista (Giorgio Gaber):

LA FINE DEL CAPITALISMO

Noi tutti siamo perdenti, mai i veri perdenti siedono a Wall Street. Si sono salvati a suon di miliardi di soldi nostri. Ci chiamano socialisti, però qui è sempre esistito il socialismo dei ricchi. Ci dicono che non rispettiamo la proprietà privata, però nel crollo del 2008 è stata distrutta più proprietà privata di quanta ne avessimo mai potuta distruggere noi tutti insieme distruggendo qui giorno e notte.

LA LOGICA DEGLI ITALIANI: IO CE L'HO PIU' LUNGO DI TE...


Io mi ricordo quando Bossi spargeva merda in giro per attirare l'attenzione e quando perfino B scagliò i suoi mastini contro Bossi, dagli Sgarbi quotidiani ai suoi pseudo TG. L'ondata coinvolse tutta la politica a portare prove che la Padania non esiste e che ci fosse un pazzo dietro con il proprio tornaconto elettorale.

INDIVIDUALISMO vs COLLETTIVISMO, RIFLESSIONI


Immaginiamo un’impresa ideale del tipo: 

esistono tre gruppi di persone, operai, impiegati e dirigenti; 
gli operai eseguono, i dirigenti decidono con l’ausilio degli impiegati; 
gli impiegati sono dei tecnici, mentre i dirigenti sono dei politici; 
gli impiegati sono stati scelti dai dirigenti in base ai titoli e meriti, mentre i dirigenti sono scelti dagli operai. 

LA QUESTIONE MORALE

La morale, secondo Hume, quello che non piace è il male, quello che piace è il bene, quindi moralmente accettabile; dall’altra parte, Kant si concentra sulla ragione e soprattutto sul modo come istituzione della moralità.

E’ anche vero che la conoscenza andrebbe intesa in modo dinamico e non statico, così anche la ragionevolezza delle nostre azioni andrebbe messa continuamente in discussione: una specie di morale della morale, ETICA.

Cosa sta succedendo negli USA?

Sognando l’America…

Reddito, variazione dal 1990 al 2005
Top manager
+300%
Borsa
+140%
Profitti delle corporazioni
+100%
Reddito lavoratori
+4%
Salario minimo
-9%


Entrate da tasse/reddito percepito è uguale a 1, e per tutti i quintili: TASSAZIONE ASSOLUTAMENTE PROPORZIONALE!!!

SPIEGIAMO COME NASCONO I CONFLITTI SOCIALI (il paradosso di Sen)

DEMOCRAZIA LIBERALE: un invenzione per gli stolti?


Se siamo liberali e allo stesso tempo anche democratici questo vuol dire sposare le due seguenti definizioni (da wikipedia):

Il liberalismo è un insieme di dottrine che pongono precisi limiti al potere e all'intervento dello stato al fine di salvaguardare i diritti di libertà e, di conseguenza, promuovere l'autonomia creativa dell'individuo.

IL DILEMMA DEL PRIGIONIERO


Ragioniamo per assurdo ipotizzando un sistema perfettamente concorrenziale e prendiamo in esame 2 imprese che producono lo stesso bene (perfetti sostituti) dove entrambe hanno una strategia dominante e l’equilibrio di Nash non coincide con l’ottimo paretiano.


B1
B2
A1
(5,5)
(0,10)
A2
(10,0)
(0,0)


Assurdo è il pensiero della concorrenza perfetta, non lo è invece il gioco stesso (reale e molto attuale). La soluzione di Nash è data dalla coppia (0,0) come atteso nel contesto concorrenziale non cooperativo e non coincide con l’ottimo paretiamo (ottimo sociale), (5,5)  informazione completa e con gioco cooperativo. 

IL SIGNORAGGIO, CERTE LEGGENDE NON MUOIONO MAI...


Supponiamo un sistema economico con due agenti soltanto: A=l'impresa e B=la banca, dove la banca fornisce finanziamenti e consuma (impiegati e dirigenti mangiano pure) beni prodotti dall'impresa.

L'impresa vuole potenziare il proprio sistema informatico e per farlo si rivolge alla banca chiedendo un prestito di 100 (tasso annuo effettivo globale del 20%) dove i lavori li eseguirà un addetto alla manutenzione che lavora per la banca. La banca può creare moneta dal nulla iscrivendo un debito e a costo zero dove anche la moneta che ritorna in banca estinguerà il debito iniziale connesso alla creazione di nuova moneta.

Perché non siamo rappresentati e perché il parlamento non rappresenta gli italiani?



Esiste una spiegazione logica ed è bene metterla in evidenza.

Non diamo il nostro voto alle persone (futuri politici) uguali o simili a noi, diamo il voto alle persone che rappresentano il nostro essere ideale, consciamente per quello che ci promettono e inconsciamente per come si presentano.